ESAMI DIAGNOSTICI TROMBOFILIA

Gli esami della coagulazione servono a valutare se il processo di formazione del coagulo è idoneo all’arresto di eventuali sanguinamenti o se è eccedente e rischia di formare trombi ed emboli.

test di coagulazione, infatti, sono analisi di laboratorio utili per monitorare l’at­tività di coagulazione del sangue, cioè il processo di arresto di una emorra­gia che si innesca a causa di una ferita più o meno grave. La coagulazione, in pratica, è un processo naturale che si verifica nel sangue di ogni persona: in caso di lesione che comporta fuoriuscita di sangue dalla ferita.

La protrom­bina, una proteina presente nel sangue, si attiva e porta alla formazione del coagulo, che ha la funzione di arrestare o limitare la perdita di sangue. Se la lesione è lieve, non sempre è necessario l’intervento delle proteine, ma è suf­ficiente l’attività delle piastrine, che bloccano da subito la fuoriuscita di san­gue. Infatti, dopo una ferita che comporta una lesione della parete vascolare, si forma il cosiddetto “tappo emostatico” ad opera delle piastrine, che sono le prime ad accorrere sulla lesione per tamponare la fuoriuscita di sangue. Contemporaneamente, se necessario perché la ferita è più estesa, vengono attivati i fattori della coagulazione, cioè l’arrivo delle proteine per rinforzare il “tappo emostatico” fino alla trasformazione del fibrinogeno (un’altra pro­teina della coagulazione) in fibrina ad opera della protrombina. La fibrina stabilizza il “tappo emostatico” consolidando in modo definitivo il coagulo formatosi nella zona lesionata. Successivamente viene attivata la fibrinolisi, che ha il compito di sciogliere il coagulo, che viene così riassorbito, e, con­temporaneamente, di avviare il processo di riparazione della ferita, al termi­ne del quale si ricostituisce la parete con la sua normale struttura. La trombofilia per contro, è la tendenza ad avere eventi coagulativi con la formazione di trombi in conseguenza ad un determinato assetto genetico che si congiunge a fattori fisiologici (gravidanza, età avanzata), farmacologici (estroprogestinici, alti livelli di estradiolo) e patologici (stasi ematica per immobilizzazione degli arti, interventi chirurgici, patologie sistemiche).
Bisogna comprendere che tutti i molteplici fattori che determinano la coagulazione sono normalmente presenti nel circolo sanguigno ma non sono attivati e che comunque la loro azione è limitata ed ostacolata da fattori anticoagulativi. Ciò al fine di garantire una corretta coagulazione solo dove serve e per il tempo necessario. La diagnostica di laboratorio è molto ampia e complessa e riguarda vari possibili test ma assume sempre più importanza anche per il suo coinvolgimento nei fenomeni di poliabortività e nei protocolli di fertilizzazione in vitro. La diagnostica di laboratorio di base dei fattori della coagulazione comprende i seguenti test:

PT: Tempo di protrombina

Il PT è l’esame che misura quanto rapidamente si coagula il sangue. La protrombina è una proteina prodotta dal fegato che interviene infatti nel processo di coagulazione e che, in caso di sanguinamento, si converte in trombina, innescando una reazione a catena che porta alla formazione di un coagulo.

È conosciuta anche come fattore II. Il valore è dato in secondi: un aumento dei secondi rispetto all’intervallo di riferimento considerato “normale” sta a significare che il sangue ci impiega più tempo a coagulare e può provocare emorragie; una diminuzione dei secondi, significa che il sangue ci impiega meno tempo a coagulare e rischia così di provocare la formazione di coaguli.

PTT e aPTT: Tempo di tromboplastina parziale e parziale attivata

Valutano l’efficacia della via intrinseca e della via comune della coagulazione. L’aPTT è “attivata” perché al valore del PTT si aggiunge, in laboratorio, un attivatore che accelera il tempo di coagulazione del sangue stimolando il fattore XII della coagulazione.

Per questo motivo il tempo rilevato dall’aPTT è più breve rispetto a quello del PTT. PTT e aPTT vanno a valutare la funzionalità dei fattori della coagulazione e la loro quantità. Più è alto il valore dell’aPTT, più lentamente coagula il sangue.

Fibrinogeno

Il fibrinogeno è una proteina prodotta dal fegato che interviene nel meccanismo della coagulazione. È liberamente presente nel sangue ed interviene in caso di sanguinamento rilasciando fibrina, che non è solubile nel sangue.

Il dosaggio di fibrinogeno permette di dosare la concentrazione di fibrinogeno circolante. Un valore più basso del normale significa che vi è una ridotta capacità di coagulazione e viceversa.

Lo scopo finale dei processi coagulativi del sangue è quello di condurre all’emostasi, cioè alla formazione di un coagulo organizzato che chiude il punto in cui la continuità del vaso sanguigno viene interrotta. Questo risultato viene ottenuto utilizzando costituenti presenti nel sangue stesso in forma inattiva che, attraverso un meccanismo a cascata, vengono attivati in maniera sequenziale fino ad ottenere il coagulo definitivo.
Le tappe fondamentali di questo meccanismo sono costituite dalla conversione della protrombina in trombina che, a sua volta va ad agire sul fibrinogeno trasformandolo in fibrina, una proteina filamentosa che forma una rete in cui blocca le piastrine ed altre componenti del sangue formando un coagulo stabile che impedisce ulteriori fuoriuscite di sangue. I meccanismi finalizzati alla coagulazione vengono ad essere controbilanciati da altri fattori che agiscono come elementi limitanti o anticoagulanti; il fine e sofisticato equilibrio tra tutte le sostanze coinvolte nella cascata coagulativa e nella sua regolazione determinano che la coagulazione sia attivata solo dove è necessario, per il tempo e per l’entità necessaria; se ciò non fosse potremmo avere fenomeni coagulativi continui e fuori controllo o viceversa fenomeni emorragici. ) 

Antitrombina III (AT-III)

L’antitrombina III è una glicoproteina di sintesi epatica in grado di provvedere all’inibizione dell’azione di diversi fattori della coagulazione: in particolare la sua azione è particolarmente efficiente nei confronti del fattore II attivato (trombina), ma essa ha azione inibente anche sui fattori IX, X, XI e XII, sulla plasmina e su molti altri fattori implicati nella cascata coagulativa, oltre ad essere un cofattore per gli anticoagulanti eparinici. I valori plasmatici di AT-III aumentano durante l’uso di anticoagulanti dicumarolici (e quindi in corso di T.A.O.), ed in situazioni di ipergammaglobulinemia ed in presenza di stati infiammatori con VES e proteina C reattiva aumentate. Di contro, i suoi valori diminuiscono in corso di terapia con anticoncezionali orali, in seguito a gravi patologie epatiche di origine sia neoplastica che non neoplastica, nonché in seguito a fenomeni tromboembolici quali ad esempio l’embolia polmonare, l’infarto miocardico acuto, la coagulazione intravasale disseminata e la tromboflebite.

Proteina S

La proteina S è un fattore del sangue che limita la coagulazione tramite la degradazione dei fattori V e VIII e nel far ciò agisce insieme ad un’altra proteina detta C coagulativa. In effetti la proteina S è efficace solo se non è legata (libera) ad un’altra proteina detta C4b, per questo motivo si parla di S coagulativa libera. La percentuale di S libera è circa il 40% mentre il 60% è legata. Una bassa percentuale di S libera costituisce uno dei fattori predisponesti la trombofilia. Sono descritte tre condizioni a riguardo, la prima è dovuta ad una quantità globale di proteina S insufficiente, la seconda è dovuta ad una bassa attività della proteina, la terza ad un eccesso della componente legata a scapito della libera. Queste condizioni possono essere su base genetica, anche se alquanto raramente, o acquisite come nel caso di patologie epatiche, sindrome nefrosica, eccessivo utilizzo della proteina S per episodi coagulativi o, più comunemente, bassi livelli di vitamina K o terapie con estroprogestinici.
La proteina C coagulativa, che come abbiamo detto coopera con la proteina S, regola la velocità di formazione dei trombi limitandone la loro estensione, la sua attivazione deriva da un fattore coagulativo detto trombina che si lega alla proteina trombomodulina ed attiva la proteina C. Proprio la proteina C attivata legandosi al suo cofattore proteina S accelerano la degradazione dei fattori V e VIII che sono le sostanze che attivano la trombina stessa. Anche la proteina C, come la S, può essere carente per fattori congeniti, iperconsumo, carenza di vitamina K, assunzione di estroprogestinici o alti livelli di estradiolo per induzione dell’ovulazione. Le carenze congenite di proteina C possono essere da deficit di sintesi o sintesi di proteine con ridotta attività biologica per ridotta capacità di legarsi alla proteina S o per ridotta capacità di degradazione dei fattori V e VIII. E’ interessante anche la valutazione della resistenza alla proteina C attivata, si tratta di un test coagulativo in cui si aggiunge al sangue da esaminare quantità crescenti di proteina C attivata assistendo pertanto ad un progressivo allungamento dei tempi di coagulazione. Se ciò non avviene si ha la resistenza alla proteina C attivata determinata dalla mutazione del Fattore V detto di Leiden.

Fattore V di Leiden

 Il Fattore V determina, una volta attivato, la conversione del fattore II in trombina; questo fenomeno viene ostacolato dalla proteina C coagulativa, in concorso con la proteina S, tramite la degradazione del fattore V che viene separato in due frammenti inattivi detti Vi9. Uno dei punti di separazione avviene a livello di una arginina posta in posizione 506. Esiste una variante genetica, legata al cromosoma 1, in cui questa arginina viene sostituita da un altro aminoacido , la glutammina, il che comporta l’impossibilità da parte della proteina C coagulativa attivata di effettuare la lisi del fattore V determinando la condizione di resistenza alla proteina C attivata (APC resistenza).
Questa condizione è detta Fattore V di Leiden, dal nome della località olandese in cui fu per la prima volta descritta, o variante G1691A e può essere presente sia, più raramente, nella condizione di omozigosi che in quella, più frequentemente, di eterozigoti. In questi soggetti aumenta il rischio di eventi trombotici e di poliabortività, si calcola che l’aumento del rischio nei soggetti in eterozigosi sia circa 5 – 10 volte superiore ai soggetti sani mentre per quelli in omozigosi il rischio di un evento trombotico è circa 80 volte superiore. L’incidenza di questa mutazione è alquanto alta, si calcola che in Europa sia presente in circa il 5% della popolazione per l’eterozigosi e allo 0,02 – 0,05% in omozigosi, non c’è differenza di incidenza tra maschi e femmine. Gli interventi chirurgici, la stasi ematica, la gravidanza e gli estroprogestinici sono fattori che incrementano il rischio.

Omozigosi: condizione in cui ci sono alleli identici per un singolo gene (nello specifico per il gene che codifica il Fattore V)
Eterozigoti: condizione in cui ci sono alleli diversi per un singolo gene
Alleli: coppia di geni presenti su due cromosomi omologhi (uno di origine paterna ed uno materna) che codificano lo stesso carattere.

Gene Protrombina

La Protrombina o Fattore II viene attivato in trombina portando alla formazione del fibrinogeno in fibrina; è uno dei punti chiave della coagulazione ed è descritta una mutazione genetica che la interessa (G20210A) con conseguente aumento dei livelli di protrombina e rischio trombofilico. Si presenta anch’essa sia in eterozigoti che in omozigosi con una incidenza relativamente bassa.

Omocisteina

L’omocisteina è un amminoacido che gioca un ruolo di primissimo piano tra i fattori predisponenti alla trombofilia e quindi al rischio cardiovascolare e a fenomeni di poliabortività. I livelli ematici di omocisteina sono regolati da vari fattori che interagiscono tra loro, in particolare il quadro genetico, i fattori nutrizionali vitaminici, le abitudini di vita ed eventuali patologie renali. Infatti il basso introito di acido folico ed in parte di B12 e B6, il fumo di sigaretta, la vita sedentaria e l’insufficienza renale sono tutti fattori di incremento dei valori ematici che vanno ad enfatizzare eventuali anomalie genetiche.
Non si conoscono ancora tutti gli effetti negativi di questo aminoacido sull’endotelio vascolare e sui meccanismi coagulativi ma sembra che vi sia una tossicità diretta contro l’endotelio. Inoltre l’omocisteina agisce sul fattore V e sul suo regolatore proteina C coagulativa. Attualmente non si conosce il motivo dell’incremento dell’omocisteina nell’insufficienza renale.
L’omocisteina deriva dal metabolismo della metionina, infatti come tale non è presente negli alimenti, ed un’alta assunzione alimentare di metionina può indurre lievi ma transitori aumenti dell’omocisteina, comunque la metionina è presente in moltissimi alimenti sia di origine vegetale che, in misura maggiore, animale. Per degradare l’omocisteina esistono due differenti vie cataboliche, la prima detta trans-sulfurazione determina la formazione di cisteina un metabolica non tossico grazie all’azione di un enzima detto cistationina beta sintetasi. Il deficit congenito di questo enzima è molto raro ma determina elevatissimi livelli di omocisteina con conseguenze spesso fatali. L’altra via metabolica è la rimetilazione in cui l’omocisteina rientra nella formazione di metionina; perché ciò avvenga è assolutamente necessaria l’azione dell’acido folico e anche delle vitamine B6 e B12. E’ inoltre necessaria una specifica attività legata ad un enzima detto MTHFR.

MTHFR

L’MTHFR è la sigla della metilentetraidrofolatoreduttasi, enzima coinvolto nella rimetilazione dell’omocisteina a metionina. La mutazione più frequente riferita a questo enzima è chiamata C667T e determina aumento dei valori di omocisteina; può essere presente sia in eterozigoti che in omozigosi con una incidenza molto alta nella popolazione.
Accanto alla mutazione C667T è stata descritta la mutazione A1298C che determina anch’essa l’aumento dell’omocisteina ed infine una grave deficit dell’attività dell’MTHFR trasmessa su base autosomica recessiva con riduzione quasi totale dell’attività enzimatica con esiti infausti ma fortunatamente con incidenza molto rara nella popolazione.

L’esame consiste in un prelievo di sangue venoso
preferibilmente  a digiuno. I farmaci non influiscono sul risultato, tranne quelli a base di acido acetilsalicilico e i farmaci antin­fiammatori in generale perchè riducono l’aggregazione piastrinica e ostaco­lano l’arresto di una emorragia. Proprio per questo, occorre informare l’operatore che esegue il prelievo che si stanno assumendo questi farmaci perché deve premere più a lungo sul punto del prelievo per fare in modo che si arre­sti la fuoriuscita di sangue causata dall’ago.